L’imprenditore è sempre responsabile della contaminazione del sito sul quale insiste la propria attività?

di Andrea Quaranta

Con la sentenza n. 2117/12, il TAR di Catania ha affermato che “la responsabilità degli operatori economici insediati nel SIN […] rispetto a misure di ripristino ambientale nasce in virtù della loro presenza all’interno del sito perimetrato, quali soggetti proprietari o utilizzatori delle aree industriali ivi ricadenti, e si configura come oggettiva responsabilità imprenditoriale, in base alla quale gli operatori economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono per ciò stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale con tutti indistintamente i fenomeni di compromissione collegatisi alla destinazione industriale del sito, gravato come tale da un vero e proprio onere reale a rilevanza pubblica, in quanto finalizzato alla tutela di prevalenti ed indeclinabili interessi dell’intera collettività”.
Il Collegio ha ritenuto tale opzione interpretativa:

perfettamente compatibile con l’applicazione del principio “chi inquina paga”, conformemente agli orientamenti della giurisprudenza più recente in materia, che ha evidenziato come il “codice dell’ambiente” disciplini un sistema sanzionatorio ambientale nel quale l’attuazione del principio non prevede che – in assenza di individuazione del responsabile ovvero di impossibilità di questi a far fronte alle proprie obbligazioni
– il costo degli interventi gravi sulla collettività (per il tramite di uno degli enti esponenziali di questa), ma pone tali costi a carico della proprietà, salvo il diritto di rivalsa del proprietario nei confronti del responsabile. Del resto, sottolinea il TAR etneo, la ratio del principio comunitario “chi inquina paga” è quella di escludere che i costi derivanti dal ripristino di siti inquinati venga sopportato dalla collettività;

non incompatibile con la possibilità che, in ipotesi di inquinamento ambientale a carattere diffuso, la normativa di uno Stato membro possa prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento.

Nel motivare tale scelta interpretativa il TAR di Catania richiama, in relazione alla “perfetta compatibilità” tre recenti sentenze del TAR del Lazio e, per quanto concerne la “non incompatibilità”, una, più datata, della Corte di Giustizia.
Fra le pronunce del TAR Lazio, in particolare, vale la pena ricordare la n. 2263/11, nella quale il giudice amministrativo laziale, al termine di un ragionamento giuridico che, fino alla fine, non faceva una piega, è arrivato a conclusioni diametralmente opposte – pur “consapevole delle diverse conclusioni cui è giunta la giurisprudenza amministrativa” – perché ciò “appare ragionevole”.
Infatti, dopo aver affermato in rapida successione che:

nel sistema sanzionatorio ambientale il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell’inquinamento, anche se, ovviamente, i due soggetti possono coincidere;
sul responsabile dell’inquinamento gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e latu sensu ripristinatori, previsti dal “codice dell’ambiente”;
tuttavia il proprietario dell’immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione;
l’ordinamento per un verso attua il principio “chi inquina paga” e per un altro non prevede che – in assenza di individuazione del responsabile ovvero di impossibilità di questi a far fronte alle proprie obbligazioni – il costo degli interventi gravi sulla collettività, ma pone tali costi a carico della proprietà;
“il proprietario del sito contaminato non è estraneo, ancorché incolpevole, alle vicende successive al constatato inquinamento, né immune dall’attribuzione finale, pur con le modalità e cautele previste, delle obbligazioni risarcitorie”;
proprio perché può essere il titolare finale delle obbligazioni risarcitorie, il proprietario è titolare di un interesse legittimo a che l’amministrazione eserciti ogni attività volta all’individuazione del responsabile, e pretenda da questi le attività di ripristino necessarie per legge in relazione alla contaminazione constatata, ovvero ponga a suo carico le spese di quanto si è dovuto attuare di ufficio,

il Collegio ha ritenuto “ragionevole” arrivare a conclusioni diverse considerando che, nel quadro di complesse operazioni, dove l’adozione di misure di prevenzione è propedeutica, o comunque connessa, alle opere di bonifica e ripristino ambientale, l’attribuzione complessiva degli interventi al proprietario può costituire la soluzione – appunto – più ragionevole ed efficiente.
L’attribuzione al proprietario di interventi sui siti contaminati non comporta alcuna affermazione, nemmeno implicita, di una sua responsabilità per l’inquinamento, e resta fermo il suo diritto di rivalsa nei confronti del responsabile.
Infine, chiosa il giudice amministrativo, sussiste l’obbligo dell’amministrazione di individuare quest’ultimo, con la conseguenza che, laddove l’amministrazione abbia posto gli interventi a carico del proprietario non responsabile, e non provveda all’accertamento di questi, essa potrebbe non essere (in astratto) immune da responsabilità nei confronti del proprietario da essa stessa gravato, in via provvisoria, di obbligazioni ripristinatorie.

La pronuncia della Corte di Giustizia, invece, nell’ammettere la presunzione di un nesso di causalità, precisa che tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.

Il TAR di Catania, fatte sue queste premesse, conclude affermando che quando l’autorità competente disponga di indizi di tal genere è in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato e quindi, in presenza di una situazione di contaminazione estesa, in relazione alla quale “non è facile distinguere l’apporto individuale di ciascun operatore nella causazione del danno ambientale, anche in considerazione dell’ampio periodo di utilizzo produttivo del sito industriale durante il quale all’interno del sito stesso si sono avvicendati numerosi operatori, risultano soddisfatti […] i presupposti indicati dalla Corte [di Giustizia] per l’accertamento presuntivo del nesso causale, vale a dire la vicinanza degli impianti e l’identità tra le sostanze rinvenute nelle matrici ambientali contaminate e quelle trattate, prodotte o stoccate, o comunque utilizzate dalle aziende”.
Del resto, chiosa il TAR, le stesse aziende non hanno confutato incontrovertibilmente tale presunzione, poiché né la dimostrazione che l’inquinamento è risalente nel tempo, né “la mancanza di correlazioni dirette tra le situazioni di contaminazione rilevate a mare ed a terra” come esposta nella relazione di C.T.U. “sono in grado, di per sé, di escludere che gli operatori attuali esercenti attività inquinanti abbiano contribuito alla contaminazione”.

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Mariano Fabris

Consulente e Resp. Tecnico in Materia di Gestione Rifiuti Cat 1,4,5,8 Preposto per il Trasporto Nazionale e Internazionale su strada di Merci.

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