Liquami zootecnici e letame: quanto costituiscono rifiuto

Liquami zootecniciL’allegato D) alla parte quarta del D.Lgs. n. 152/06 (c.d. TUA) include, tra i rifiuti, «feci animali, urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti, raccolti separatamente e trattati fuori sito» (codice CER 02 01 06); per cui, in via generale, dette sostanze possono costituire rifiuti.

Il TUA, tuttavia, pone alcuni limiti al campo di applicazione della disciplina sui rifiuti. L’art. 185, co. 1, infatti, prevede che non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti “le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”. Lo stesso articolo, al comma 2, stabilisce che sono esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del decreto (disciplina sui rifiuti), in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento: “i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio”.

Da quanto precede, consegue che, per le materie fecali, per escluderli dal novero dei rifiuti, è necessaria una preventiva verifica finalizzata ad individuarne la collocazione entro i limiti fissati dal regolamento n. 1774/02 (oggi: regolamento (CE) n. 1069/2009), che ne determinerebbe l’esclusione dal novero dei rifiuti ai sensi dell’art. 185, comma 2, lett. b) e, nel caso in cui non operi la citata disposizione comunitaria, alla ulteriore verifica della sussistenza dei presupposti per l’esclusione fissati dell’art. 185, comma 1, lett. f).

L’art. 3, n. 20, del regolamento 1069/2009 definisce «stallatico» gli “escrementi e/o l’urina di animali di allevamento diversi dai pesci d’allevamento, con o senza lettiera“; mentre il successivo art. 9, lett. a), individua lo stallatico, unitamente al guano non mineralizzato ed al contenuto del tubo digerente, come sottoprodotto di origine animale, collocandolo tra i «materiali di categoria 2» il cui smaltimento ed uso è disciplinato dal successivo art. 13, il quale comprende, alla lettera f), anche la possibilità di spandimento sul terreno senza trasformazione preliminare, qualora l’autorità competente ritenga che non presentino rischi di diffusione di malattie trasmissibili gravi. L’art. 2, co. 2, del regolamento ne esclude l’applicabilità ai sottoprodotti destinati a sterilizzazione sotto pressione o alla trasformazione mediante i metodi di cui all’art. 15, paragrafo 1, lett. b) o alla trasformazione in biogas o compost (lettera iii) ed agli escrementi e urina diversi dallo stallatico, nonché il guano non mineralizzato (lettera k).

Per quanto concerne, invece, l’esclusione dal novero dei rifiuti ai sensi dell’art. 185, co. 1, la provenienza, le caratteristiche e la successiva utilizzazione delle materie fecali sono peculiarità determinanti ai fini dell’esclusione stessa. L’esclusione dalla disciplina dei rifiuti opera a condizione che le materie fecali provengano da attività agricola e siano riutilizzate nella stessa attività agricola (cfr. Cass. pen. n. 8890/05); l’esclusione, in tal caso, è applicabile solo al letame agricolo e l’effettiva riutilizzazione nell’attività agricola deve essere dimostrata dall’interessato (cfr. Cass. pen. n. 45974/05).

Per vero, liquami zootecnici e letame possono altrimenti essere esclusi dal novero dei rifiuti, se oggetto di «utilizzazione agronomica». L’art. 74, lett. p), del TUA, definisce «utilizzazione agronomica» “la gestione di effluenti di allevamento, acque di vegetazione residuate dalla lavorazione delle olive, acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agro-alimentari, dalla loro produzione fino all’applicazione al terreno ovvero al loro utilizzo irriguo o fertirriguo, finalizzati all’utilizzo delle sostanze nutritive e ammendanti nei medesimi contenute”.

L’art. 112, sempre del TUA, a sua volta, stabilisce:

Fermo restando quanto previsto dall’articolo 92 per le zone vulnerabili e dal decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, per gli impianti di allevamento intensivo di cui al punto 6.6 dell’Allegato 1 al predetto decreto, l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari, sulla base di quanto previsto dalla legge 11 novembre 1996, n. 574, nonché dalle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all’articolo 101, comma 7, lettere a), b) e c), e da piccole aziende agroalimentari, così come individuate in base al decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali di cui al comma 2, è soggetta a comunicazione all’autorità competente ai sensi dell’articolo 75 del presente decreto. 

2.  Le regioni disciplinano le attività di utilizzazione agronomica di cui al comma 1 sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali, di concerto con i Ministri dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, delle attività produttive, della salute e delle infrastrutture e dei trasporti, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del predetto decreto ministeriale, garantendo nel contempo la tutela dei corpi idrici potenzialmente interessati ed in particolare il raggiungimento o il mantenimento degli obiettivi di qualità di cui alla parte terza del presente decreto.

3.  Nell’ambito della normativa di cui al comma 2, sono disciplinati in particolare:

a)  le modalità di attuazione degli articoli 3, 5, 6 e 9 della legge 11 novembre 1996, n. 574;

b)  i tempi e le modalità di effettuazione della comunicazione, prevedendo procedure semplificate nonché specifici casi di esonero dall’obbligo di comunicazione per le attività di minor impatto ambientale;

c)  le norme tecniche di effettuazione delle operazioni di utilizzo agronomico;

d)  i criteri e le procedure di controllo, ivi comprese quelle inerenti l’imposizione di prescrizioni da parte dell’autorità competente, il divieto di esercizio ovvero la sospensione a tempo determinato dell’attività di cui al comma 1 nel caso di mancata comunicazione o mancato rispetto delle norme tecniche e delle prescrizioni impartite;

e)  le sanzioni amministrative pecuniarie fermo restando quanto disposto dall’articolo 137, comma 15”.

Con il D.M. 7 aprile 2006 sono stati dettati «Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, di cui all’articolo 38 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152».

Si tratta di una nuova e più ampia deroga, alla disciplina dei rifiuti, rispetto a quelle sinora riportate. L’ampiezza della deroga, anzitutto, include tutte le fasi della gestione degli effluenti, ivi comprese quelle, intermedie, del deposito e del trasporto delle sostanze, come si ricava dalla nozione stessa di utilizzazione agronomica.

Ciò posto, le disposizioni in materia di «utilizzazione agronomica» hanno una portata derogatoria più ampia rispetto a quelle previste dalla disciplina sui rifiuti (art. 185, co. 1 e 2, cit.), rispetto alle quali sono autonome ed indipendenti: per esempio, in materia, non si richiede che gli effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella stessa attività agricola, come richiesto dall’art. 185, co. 1; per di più, nella nozione di effluente da allevamento (cfr. art. 74, lett. v) non sono ricomprese le sole materie fecali, ma anche la miscela di lettiera e di deiezione di bestiame, anche sotto forma di prodotto trasformato (cfr. Cass. pen. n. 38411/08); né è richiesto che la fertirrigazione debba effettuarsi attraverso lo scarico diretto tramite condotta, in quanto la deroga all’ordinaria disciplina è condizionata alla sola effettiva utilizzazione agronomica degli effluenti, in qualunque modo questa avvenga.

La pratica della «fertirrigazione» in tanto è tale, in quanto sia di una qualche utilità per l’attività agronomica. Ciò implica, pertanto, che la finalità dell’attività sia effettivamente il recupero delle sostanze nutritive ed ammendanti contenute negli effluenti e non può risolversi nel mero smaltimento delle deiezioni animali; ne consegue la necessità che, in primo luogo, vi sia l’esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, la quantità e qualità degli effluenti sia adeguata al tipo di coltivazione, i tempi e le modalità di distribuzione siano compatibili ai fabbisogni delle colture e, in secondo luogo, che siano assenti dati fattuali sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione quali, ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta, effettuato a fine ciclo vegetativo, oppure senza tener conto delle capacità di assorbimento del terreno con conseguente ristagno.

Queste ultime condotte, non rientranti nella nozione di utilizzazione agronomica, ricorrendone gli ulteriori presupposti, possono, infatti, assumere rilevanza penale, come casi di illecita gestione di rifiuti ovvero ai sensi dell’art. 137, co. 14, del TUA1.

1 Per gli approfondimenti si rinvia a: Cass. pen. n. 16200/14; Cass. pen. n. 15043/13 e Cass. pen. n. 5044/12.

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Salvatore Casarrubia

Avvocato specializzato in diritto ambientale, diritto della sicurezza sul lavoro e in diritto penale impresa.

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