In Italia si fanno studi, convegni, rapporti, proclami attorno al tema dei rifiuti per poi rimanere al palo sui sistemi di trattamento: e il risultato è che quantità pari a circa (poco più poco meno a seconda delle analisi) la metà dei rifiuti urbani prodotti e molto più della metà di quelli speciali vanno a finire in discarica. O prendono la strada della Germania, come ci dice il dipartimento dell'Ambiente tedesco, che attesta che il nostro paese ha aumentato dal 1995 al 2008 le quantità di rifiuti inviate oltralpe passando dalle 7mila tonnellate di allora ai circa 1,6 milioni di tonnellate nel 2008 diminuite ( si fa per dire) a 1,45 milioni di tonnellate nel 2009. Terza in questa classifica di esportatori l'Italia detiene però il primato dell'incremento dei rifiuti che ha contribuito (per un quinto) a far sì che in Germania nel 2009 siano state smaltite-trattate 7,6 milioni di tonnellate di spazzatura provenienti da tutto il mondo.
Un import che per la Germania è aumentato costantemente dal 1995 di circa il 2.615%, vale a dire da appena 281mila tonnellate fino ai quasi 8 milioni attuali e che non ha avuto nemmeno effetti negativi a seguito della crisi economica, confermandosi un settore di grande interesse per il paese .
Dal solo trattamento dei rifiuti importati la Germania ottiene infatti molti vantaggi: da quello di incassare le tariffe pagate dai paesi esportatori, al guadagno per la vendita delle materie prime seconde ottenute dalla selezione dei rifiuti e infine dall'energia ottenuta per l'incenerimento dei materiali residui.
Ma nel settore della gestione dei rifiuti la Germania detiene anche il primato per le tecnologie di trattamento e smaltimento di cui è invece esportatore netto.
Le agenzie di stampa che riportano i dati dell'importazione dei rifiuti del dipartimento ambiente tedesco non dicono quale sia la ripartizione tra urbani e speciali di queste quantità trattate in Germania: sappiamo che dall'Italia sono partiti diversi treni di rifiuti urbani per far fronte all'emergenza campana, anche se il nostro ordinamento permetterebbe – in via ordinaria – solo l'export o l'import di rifiuti speciali.
Ma stando ai dati dell'ultimo rapporto sul trasporto transfrontaliero dei rifiuti, redatto da Fise Assoambiente sui dati disponibili riferiti al 2005, il bilancio tra import ed export pone il nostro paese come esportatore netto con un totale di circa 1,9 milioni di tonnellate di rifiuti esportati (di cui oltre 1,3 milioni di tonnellate di speciali non pericolosi e circa 573.000 tonnellate di pericolosi) contro una importazione di poco più di 1,4 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (di cui circa 33.000 tonnellate di pericolosi). L'analisi dei flussi dimostra poi che quello in uscita è legato al trattamento finale di rifiuti provenienti da processi produttivi (ceneri, scorie, polveri), quello in entrata riguarda invece soprattutto i rifiuti da avviare al riciclaggio (legno, vetro, plastiche, metalli).
Una situazione che fa emergere due aspetti della gestione dei rifiuti nel nostro paese: la carenza di sistemi di trattamento dei rifiuti prodotti e l'arretratezza dei sistemi di raccolte differenziate finalizzate al riciclaggio dei materiali. Oltre il 90% dei rifiuti speciali sono esportati in paesi europei (in particolare in Germania come ci dicono i dati del dipartimento tedesco) dove vengono non solo smaltiti ma anche trattati per ricavarne altra materia e energia.
Attività che potrebbero in maniera del tutto analoga essere svolte da aziende del nostro paese, ottenendo un doppio vantaggio, ambientale ed economico: si potrebbe infatti chiudere il ciclo dei rifiuti e sviluppare una filiera economica in grado di produrre reddito e occupazione qualificata e duratura. Ma anziché aiutare a crescere questa cultura e fornire gli strumenti necessari per agevolarla (ad esempio evitando l'attuale caos di riferimento normativo del settore) quello che è cresciuta è l'esportazione verso la Germania che si arricchisce grazie ai nostri scarti.
L’autorizzazione unica per gli impianti di produzione da energia rinnovabile spetta alle Regioni
I Comuni non possono autorizzare certi tipi di impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili caratterizzati da determinate capacità di generazione, perché – secondo la legge nazionale – non ne hanno la competenza.
Lo afferma la Corte Costituzionale che dichiara illegittima la legge regionale del Molise "Nuova disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel territorio della Regione Molise". In particolare nella parte in cui prevede che gli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico siano autorizzati dai Comuni competenti per territorio secondo le procedure semplificate stabilite dalle "linee guida" regionali.
In vero è una disposizione nazionale (quella contenuta nell'articolo 12, comma 10, nel d.lgs. n. 387 del 2003) che affida alle Regioni o alle Province delegate il rilascio dell'autorizzazione unica alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e assoggetta alla sola denuncia di inizio attività (Dia) gli impianti stessi, unicamente quando la loro capacità di generazione sia inferiore alle soglie individuate dalla tabella A dello stesso decreto.
Prevede anche la possibilità di derogare alle soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali è applicabile la disciplina della Dia, ma solo con decreto interministeriale, d'intesa con la Conferenza unificata senza che la Regione possa provvedervi autonomamente.
L'autorizzazione unica regionale quindi è sì derogabile a favore di procedure semplificate, ma limitatamente. Del resto la funzione dell'autorizzazione unica è quella di realizza una procedura uniforme mirata a realizzare le esigenze di tempestività e contenimento dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi inerenti alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, che "resterebbe vanificata ove ad essa si abbinasse o sostituisse una disciplina regionale, anche se concepita nell'ambito di una diversa materia".
Presentato il Rapporto Ecomafia 2010 di Legambiente
Ormai quasi maggiorenne (è alla sua diciassettesima edizione) continua a riscuotere un gran successo il dossier Ecomafia di Legambiente.
Al di là della qualità della raccolta e dell'analisi dei dati, il dossier Ecomafia di Legambiente giunto alla sua diciassettesima edizione riscuote interesse perché è estremamente attuale e questo non è un bel segnale. Vuol dire che i reati in campo ambientale continuano ad essere commessi ed anzi sono in aumento.
Gli illeciti accertati nel 2009 (anno a cui si riferisce il rapporto "Ecomafia 2010") sono 28.576 contro 25.776 del 2008, pari a 78 reati al giorno, cioè più di 3 l'ora. Aumentano però del 33,4% le persone denunciate (da 21.336 a 28.472), dell'11% i sequestri effettuati (da 9.676 a 10.737) e aumentano anche gli arresti (+ 43%, da 221 nel 2008 agli attuali 316). Per quanto riguarda il settore in cui il reato è stato commesso, si registra una decisa impennata di infrazioni accertate nel ciclo dei rifiuti (da 3.911 nel 2008 a 5.217 nel 2009), e un leggero calo nel ciclo del cemento (da 7.499 a 7.463), mentre crescono decisamente i reati contro la fauna (+58% ) e i diversi reati contro l'ambiente marino e costiero. La crisi economica non pare incidere sul settore "produttivo" delle ecomafie che ha un giro d'affari stabile, intorno ai 20,5 miliardi di euro.
Questo il quadro di sintesi dei dati forniti da tutte le Forze dell'ordine e di Polizia giudiziaria impegnate nelle indagini contro i reati ambientali e analizzati da Legambiente. «Il business dell'ecomafia minaccia gravemente il futuro del Paese sottraendo risorse preziose all'economia legale e condannandolo all'arretratezza – ha dichiarato il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – Anche il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, nella recente relazione all'assemblea nazionale di Bankitalia, ha sottolineato la stretta connessione tra la densità della criminalità organizzata e il livello di sviluppo, ribadendo la necessità di combattere la corruzione per rilanciare il Mezzogiorno. Ma l'illegalità non sottrae solo gettito fiscale. Influisce sulla sicurezza e i diritti dei lavoratori, falsa il mercato e la competizione, impedendo un reale sviluppo economico e sociale del territorio a totale beneficio delle cosche criminali».
Per quanto riguarda la classifica regionale (poco virtuosa) sull'illegalità ambientale, "passi in avanti" sono stati fatti dal Lazio che sale al secondo posto (era al quinto nel 2008), soprattutto per i reati contro il patrimonio faunistico, mentre il suo territorio è sempre più esposto alle infiltrazioni dei clan, in particolare nel Sud pontino. Al primo posto stabile la Campania con 4.874 infrazioni accertate (il 17% sul totale nazionale). Al terzo posto la Calabria, con 2.898 infrazioni seguita dalla Puglia con 2.674 infrazioni. Scende di due posizioni la Sicilia, al quinto posto con 2.520 infrazioni accertate, mentre la Liguria si conferma come lo scorso anno, quale prima regione del Nord Italia con il maggior numero di reati: 1.231.
Nonostante manchino all'appello i dati sui rifiuti speciali finiti nel ciclo illegale e trasformati in "oro" dalla criminalità organizzata, non siano ancora stati valutati i vantaggi economici che traggono le ecomafie per le carenze impiantistiche e gestionali della filiera legale dei rifiuti, nè infine il dato relativo ai furti e ai traffici di opere d'arte e reperti archeologici, il cui mercato continua a sfuggire a una precisa quantificazione monetaria (sembra che il volume d'affari sia secondo solo al traffico internazionale di stupefacenti), continua a rimanere impressionante il "giro" economico delle ecomafie. Alcuni dati di dettaglio: rispetto al 2008 si conferma l'abusivismo edilizio, con una somma in nero accumulata, di 2 miliardi, come del resto il racket degli animali che, stando alla stima della Lega antivivisezione (Lav), rimane intorno ai 3 miliardi di euro, tra corse clandestine di cavalli, combattimenti tra cani, traffici di fauna viva esotica o protetta, macellazione clandestina. Gli investimenti a rischio in opere pubbliche e gestione dei rifiuti urbani nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa anche nel 2009 superano i 7 miliardi e mezzo di euro.
L'ecomafia poi si conferma sempre più come fenomeno globale con la nostra criminalità ai vertici delle classifiche internazionali, ma le risposte delle istituzioni sono però più efficaci. L'Organizzazione mondiale delle Dogane ha attivato nuove e più sinergiche alleanze tra agenzie che hanno portato nel 2009 al sequestro, solo in Italia, di ben 7.400 tonnellate di rifiuti. «L'azione di contrasto messa in campo dalle Forze dell'ordine – ha sottolineato il vicepresidente dell'associazione ambientalista, Sebastiano Venneri – deve essere sostenuta concretamente dal Governo con la disposizioni di nuovi efficaci strumenti. Introducendo finalmente (entro la fine del 2010) i delitti contro l'ambiente nel Codice Penale e consentendo l'uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali nelle indagini, ma anche mettendo mano alle situazioni di pericolo più grave, quali le aree inquinate da bonificare e gli edifici e le opere pubbliche a rischio calcestruzzo depotenziato da monitorare e mettere subito in sicurezza» ha concluso Venneri.
Le nuove discariche prodotte dal bisogno di caffé in cialda
Una volta c'era la moka. Simbolo, se vogliamo, anche di un certo ambientalismo, vista l'altissima percentuale di materiale riciclato che compone le macchinette che soprattutto dal dopoguerra in poi hanno accompagnato il lungo sogno di benessere dell'italiano medio.
Poi, qualche anno fa, sono arrivate le macchinette elettriche, via via sempre più metallizzate, sempre più di design sempre più status symbol (che presuppone anche un ciclo di vita più breve) che non possono mancare nelle liste di nozze delle nuove famiglie, così come nelle famiglie più vecchie, che finalmente possono permettersi un caffè buono come quello del bar.
Ma la moka a ben guardare era (è?) una tragedia per il mercato: praticamente indistruttibile, eterna a patto di sostituire ogni tanto le guarnizioni e al limite il filtro. Per scardinare il mito della moka sono serviti anni si strategie di marketing del più alto livello, supportate da investimenti pubblicitari ciclopici con siparietti in prima serata arrivati a scomodare perfino il padreterno e tutti i santi intorno.
Ancora la malattia della moka non è stata debellata, ma la strada per farla divenire roba da collezionisti è stata presa. E la tendenza ora è quella di usare la stessa strategia delle stampanti: così come una stampante la puoi pagare 20 euro e le cartucce per ricaricarla ogni volta costano il doppio, allo stesso modo le macchine elettriche del caffè sono entrate prima negli uffici e poi anche nelle nostre case in comodato d'uso, gratuite, a patto di acquistare modiche quantità di caffè inserite in generose porzioni di plastica colorata umanizzate in nomignoli assurdi, a prezzi che se considerati a peso (almeno 50-60 euro al chilo), farebbero gridare al furto ma che invece l'inoculazione subliminale delle pubblicità, rende invisibili.
Insomma, grazie anche a questo nuovo bisogno creato dall'industria della pubblicità per tutta una lunga serie di altre industrie (quelle che compongono le filiere della cialda di caffè, dall'estrazione delle materie prime fino allo smaltimento finale), le capsulette di caffè che hanno preso i nomi dai cugini dei sette nani impazzano nelle nostre discariche (le cialde di stoffa sono diventate quasi introvabili, per amatori, ma avevano se non altro il merito di non contenere plastica e di poter essere raccolte con l'organico) insieme alla confezioncina sottovuoto in alluminio e insieme allo scatolone di cartone che ne contiene qualche decina. E contemporaneamente a tutto ciò la Bialetti ha annunciato nei mesi scorsi che delocalizzerà all'estero la sua storica fabbrica di macchine moka…
Del resto questo è solo uno dei tanti esempi della direzione che prende il mercato quando viene lasciato libero di agire. Un'altra testimonianza possiamo coglierla nella pagina pubblicitaria che un'azienda «leader nel mercato nazionale della produzione di preforme e contenitori in Pet» ha comprato oggi sul Giornale. In Italia si sa, a differenza di altri Paesi europei, il pet riciclato non può essere utilizzato per diventare un nuovo imballaggio per uso alimentare. Questo significa che tutte le nostre bottiglie di plastica – quando e se vengono riciclate – si trasformano in maglie, in arredi, pallet, ma non in nuove-vecchie bottiglie di acqua minerale. Ed è anche per questo che in tutta questa pagina pubblicitaria non viene fatto alcun accenno ad eventuali virtù ecologiche dell'azienda, che evidentemente non interessano (ancora?) i grandi produttori di acqua e bevande, che invece quando si rivolgono ai loro clienti (i consumatori finali) millantano la loro grande sensibilità ambientale consapevoli di quanto oggi il greenwashing renda.
Il filo rosso che unisce l'acqua minerale in pet e le capsule di caffè non è uno solo: c'è quello della plastica, quello dell'usa e getta / obsolescenza programmata, c'è infine la leva perennemente alzata della pubblicità come arma di convinzione di massa.