Salvatore Avvocato Casarrubia – info@cs-legal.it
Deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto o tramite il suo recupero. La nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Non rileva, pertanto, l’interesse che altri possa avere allo sfruttamento del bene inservibile e non più utile al suo detentore, poiché tale interesse non trasforma il rifiuto in qualcosa di diverso. Occorre infatti porsi nell’ottica esclusiva del detentore/produttore del rifiuto, non in quella di chi ha interesse all’utilizzo del rifiuto stesso. E’ la condotta del detentore/produttore che qualifica l’oggetto come rifiuto e che con la sua azione del “disfarsi” pone un “problema”, quello della gestione del rifiuto, la cui risoluzione costituisce attività di pubblico interesse (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 177, comma 2). La nozione di sottoprodotto concorre a meglio circoscrivere l’ambito della condotta del “disfarsi”. Sottoprodotti son sempre state quelle sostanze o quegli oggetti dei quali sin dall’inizio fosse certa, e non eventuale, la destinazione al riutilizzo nel medesimo ciclo produttivo o alla loro utilizzazione da parte di terzi. E’ questa certezza oggettiva del riutilizzo che esclude a monte l’intenzione di disfarsi dell’oggetto o della sostanza: la mancanza di certezze iniziali sull’intenzione del produttore/detentore del rifiuto di “disfarsene” e l’eventualità di un suo riutilizzo legata a pure contingenze, impedisce in radice che esso possa essere qualificato come “sottoprodotto” sol perché il detentore se ne disfi mediante un negozio giuridico. Cass. pen. sentenza del 02.12.2014